Facce, corpi, personaggi, occhi che guardano e lasciano trasparire qualcosa che si manifesta al di là del rappresentato. Grottesche e caricate figure, talvolta deformi, ambigue nella complessità che cerco di evocare, apparizioni di un infantile mancato, tentativi di scoppiare, di far affiorare pensieri pesanti di anime che palpitano nella fissità, nell’immobilità incatenate. Presenze, che, al di là dei riflessi di un vitreo occhio, socchiuso o spalancato, si rendono protagoniste assolute, ma rimandano e ammiccano ad un mondo tutto sommato lontano perché invisibile e privo di interesse, e allo stesso tempo vicino perché ingombrante costrittore. Cedendo ogni mia capacità introspettiva alla pittura, dischiudo segreti a me stessa e relego a lei ogni spiegazione, cosicché io riesca ad apparirmi più inconsapevole e liberata, più pulita alla ricerca di una sorta di bellezza nel mio dolore personale, desiderosa in tale ricerca di rivestirmi di una qualche ingenuità. Per una moltitudine di figli malati nuova bellezza si scova o si cerca perlomeno di scovare, e con la grazia e la tenerezza fatta di realtà in solitudine tutto ciò che appare è forse solo una crosta superficiale. L'ironia che può pervadere i miei lavori ,è ingannevole e rappresenta la paura. L'ingenuità da cui cerco di non separarmi completamente, a mio avviso è lo strumento più efficace per la ricerca all'interno di tale paura. E se la paura genera mostri, io cerco di amarli con la pittura. Dunque la mia pittura parla dei miei mostri, anche se ritengo che dare un nome alle “cose” diventi in parte invalidante, in quanto Le “cose”, cambiano continuamente e questo fa parte della ricerca che identifico nella stessa pittura. Quindi il mio sforzo sta anche nel mantenere un'identità labile pur nella resa incisiva dei soggetti. Ecco perché credo necessario, almeno in parte, abbandonarsi all'inconsapevole e alle visioni che popolano la mia mente prima di cominciare una tela, alla casualità e alla pigrizia personale degli accostamenti, e delle sovrapposizioni dei soggetti. Ad una coerenza che include una sorta di disordine soggettivo. Tanto che siano loro a parlarmi e non viceversa, a dirmi quando il lavoro è terminato, proprio per potermi così sgravare di questo peso, di questa decisione; per ritrovarmi in questa ricerca, riscoprirmi e rigenerarmi in una nuova dimensione. Proprio perché la scoperta è prima di tutto personale. Perché non si ha niente da dire. Perché avere qualcosa da dire, non significa “dire qualche cosa”, ma piuttosto “essere qualche cosa”. Così l'opera terminata diventa un carattere.
Perdermi e ritrovar qualcosa d’altro è sempre ciò che mi auguro quando comincio una tela e in fondo tutto ciò che cerco sta in un volto e nella mano che lo sorregge: il corpo.